“BATTI LEI!”: CINQUANT´ANNI DI TRAGICHE AVVENTURE SPORTIVE DEL RAGIONIER UGO FANTOZZI (1)
- maximminelli
- 18 apr
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 20 apr

„Solo ora, all'inizio di un tragico declino fisico, Fantozzi sta realizzando di non essere mai stato uno sportivo.“
(da Paolo Villaggio, „Fantozzi“, Rizzoli, 1971)
Da 50 anni, esattamente dal 27 marzo 1975, anno dell´apparizione al cinema di „Fantozzi“, diretto da Luciano Salce e interpretato dal creatore del personaggio, Paolo Villaggio, noi italiani ridiamo, amaramente ma anche con gusto, di questo strano essere goffo, sgradevole esteticamente, fondamentalmente vigliacco e servile. Paolo Villaggio, con il suo genio comico, non si è limitato a farci ridere: ci ha offerto uno specchio, a volte deformante ma sempre veritiero, delle nostre contraddizioni sociali.
Ridiamo di lui, perché crediamo di ridere del nostro vicino di casa, del nostro collega, di nostro cugino, di nostro cognato, anche del nostro capufficio (ma in questo caso ridiamo di nascosto…). Non ce ne accorgiamo, però, che in realtà ridiamo anche di noi stessi. Soprattutto di noi stessi.
Ognuno di noi è Fantozzi, il rag. Ugo Fantozzi, che Villaggio aveva ideato qualche anno prima come figura satirica per alcuni articoli usciti in precedenza sul periodico "L´Europeo", poi raccolti in volume nel 1971. Come accennato, qualche anno dopo lo sfortunato ragioniere diventa una figura in carne e ossa sul grande schermo nel primo film della lunga serie, troppo lunga. A parte i primi tre, forse con qualche lampo nel quarto, gli altri episodi del ciclo di Fantozzi sono state stanche, ripetitive, inutili repliche, che Villaggio ha girato più per motivi commerciali, avendo perso di fatto la brillantezza e l´acutezza dei primi film.

Tornando a noi, ehm, cioé, a lui, al rag. Ugo Fantozzi, il più medio degli italiani medi (anche più degli italiani medi di Alberto Sordi, per esempio). Anche Fantozzi ha avuto a che fare con lo sport (e chi di noi italiani medi non ha avuto o ha a che fare con lo sport?). Solo che il suo rapporto con il mondo dello sport in generale, con alcuni in particolare, è tutt´altro che sano, felice, ricreativo. Per il nostro „eroe“ l´unico sport che può sopportare è quello in tv (ne parlerò più approfonditamente nella seconda puntata dedicata a Fantozzi). Quando, purtroppo per lui, gli viene imposto di mettersi in movimento, iniziano drammi più drammatici dei drammi che vive quotidianamente, sul lavoro, in casa o per la strada.
L'impiegato italiano tra boom economico e disillusioni
Dietro le disavventure sportive del ragionier Ugo Fantozzi si cela una delle più lucide e spietate analisi della società italiana del boom economico. Per comprendere il fenomeno Fantozzi bisogna contestualizzarlo nell'Italia degli anni '70. Un paese che aveva vissuto il miracolo economico e si trovava ora ad affrontare le prime crepe di quel sogno. L'impiegato italiano rappresentava una figura emblematica: né operaio né dirigente, ma travolto da una nuova ondata di consumismo.

La piccola borghesia impiegatizia era una classe in ascesa, almeno in apparenza. Dotata di un'istruzione superiore rispetto al passato e di una moderata capacità di spesa, rimaneva tuttavia schiacciata tra aspirazioni di grandeur e una realtà ben più modesta. In questo limbo sociale, Paolo Villaggio – insieme ad altri artisti come Fabrizio De André con il suo "Storia di un impiegato" – aveva trovato il terreno fertile per delineare il ritratto di una generazione confusa e frustrata.
E quale strumento migliore dello sport per smascherare le contraddizioni del mito borghese? Attraverso il filtro dello sport, Villaggio racconta l'italianità media in tutte le sue sfumature: l'inadeguatezza, l'imbarazzo, il senso di esclusione, ma anche il desiderio di riscatto e la cocciuta ostinazione a non voler accettare i propri limiti.
Lo sport come specchio della società: un catalogo di umiliazioni
Nei film di Fantozzi troviamo un vero e proprio catalogo tragicomico di attività sportive: dal calcio al tennis, dallo sci alla caccia, passando per il biliardo, lo sci d´acqua, il ciclismo e l´atletica leggera. Ogni disciplina diventa occasione per mostrare non solo la goffaggine del protagonista, ma anche e soprattutto le dinamiche sociali che governano gli ambienti e le dinamiche sociali entro cui si muove e, dove, il più delle volte, si trova imprigionato.
Lo sport, teoricamente simbolo di unità, amicizia e superamento delle barriere sociali, così diventa nei film di Fantozzi il teatro privilegiato delle disuguaglianze, del servilismo, delle frustrazioni, delle piccole e grandi miserie umane. È anche una vetrina impietosa dei privilegi e delle gerarchie che regolano la società italiana. E delle mode, che costringono anche il modesto ragioniere ad adeguarsi allo spirito del tempo, pur se il suo istinto sarebbe quello di passare il proprio tempo libero spaparanzato sulla sua poltrona.
Il calcio: la brutalità dell'italiano medio

La partita "scapoli contro ammogliati" è il primo momento sportivo cult della saga: non a caso Villaggio e Salce fanno proprio del calcio, già allora lo sport nazionale per antonomasia, il primo grottesco palcoscenico delle disavventure sportive del nostro eroe e dei suoi non meno goffi e ridicoli colleghi. Il campo fangoso, la violenza della mischia e l'assoluta mancanza di talento dei partecipanti rappresentano una parodia feroce della passione principe di noi italiani medi, ma anche delle piccole ambizioni nascoste in tutti noi Fantozzi.
Lo sport più popolare d'Italia diventa nelle mani di Villaggio lo specchio dell'assurdità e della violenza latente della società. La partita si trasforma in una battaglia senza esclusione di colpi, dove non conta il fair play, ma solo la vittoria a tutti i costi, anche a prezzo della propria incolumità fisica.
La lunga sequenza, oltre a momenti insuperabili di comicità grottesca, è una prima metafora perfetta della competizione sociale selvaggia che caratterizzava l'Italia del boom economico, con il suo carico di frustrazioni e aggressività repressa che trova sfogo sul campo di gioco.
Inoltre fa la prima apparizione la mitica „nuvoletta“ che perseguita Fantozzi in ogni tentativo di godersi il tempo libero, anche in quello già molto frustrante della partita di calcio su un improponbile campetto di periferia.
Il tennis: l'alba dei diseredati
"Possono giocare solo all'alba, tra le 6 e le 7 del mattino, perché dopo, a partire dalle 7, c'è il medico, dalle 8 il direttore, dalle 9 il mega direttore galattico, dalle 10 direttori clamorosi, ereditieri, cardinali e figli di tutti questi potenti."

Questa celebre scena del tennis all'alba, con Fantozzi e Filini (Gigi Reder) che colpiscono a vuoto nella nebbia fitta, è emblematica. Forse non fu nemmeno un caso che fu addirittura la prima in assoluto ad essere girata durante la realizzazione di quel primo episodio del 1975.
Il tennis, sport che negli anni '70 stava vivendo un momento di grande popolarità grazie alle vittorie italiane in Coppa Davis e, soprattutto, a quelle di Adriano Panatta, rappresentava un nuovo simbolo di status sociale. Le aziende costruivano campi da tennis per i dipendenti, creando l'illusione di un accesso democratico allo sport. Anche io, Fantozzino in erba, provai a prendere lezioni di tennis presso il locale circolo tennistico: Paolo Villaggio sarebbe stato orgoglioso di me, per la totale incapacità con la racchetta di un imbranato come me.

Tornando alla nebbiosa partita del duo Fantozzi-Filini, la realtà, come ci mostra Villaggio, era ben diversa. I campi sono accessibili ai "ragionieri" solo nelle ore più scomode, mentre le fasce orarie migliori sono riservate ai potenti. Non solo gli orari, ma anche l'abbigliamento racconta questa disparità: Fantozzi e Filini giocano con tenute improvvisate, mentre i "veri" tennisti sfoggiano completi eleganti e costosi e attrezzature professionali.
Questa scena riflette perfettamente quella che Pier Paolo Pasolini definiva come una "rivoluzione antropologica", dove i valori tradizionali lasciavano spazio all'edonismo consumista, e la piccola borghesia cercava disperatamente di imitare, senza mai riuscirci davvero, i codici stilistici e culturali delle classi più alte.
Lo sci: l'improvvisazione verticale
Lo sci rappresenta un altro esempio lampante di come lo sport diventi veicolo di critica sociale. Fantozzi, in vacanza a Courmayeur (località già di per sé simbolo di un certo status, reale o millantato), insieme all´insoportabile geometra Calboni (Giuseppe Anatrelli) e alla signorina Silvani (Anna Mazzamauro), il suo segreto amore non corrisposto si ritrova a dover affrontare una discesa che è ben al di sopra delle sue capacità.

La sequenza è magistrale: dall'attrezzatura, ancora una volta inadeguata, alla posizione grottesca "a uovo", fino all'inevitabile serie di cadute rovinose che lo porteranno ad arrivare al traguardo solo a notte fonda, in condizioni pietose. Lo sci, all´epoca sport ancora abbastanza elitario, ma anche esso fortemente veicolato dai successi della cosiddetta „Valanga azzurra“, diventa il palcoscenico perfetto per mostrare l'inadeguatezza della piccola borghesia che tenta di emulare gli stili di vita delle classi superiori.

C`è un altro aspetto interessante nella sequenza sulle piste delle alpi aostane. Assistiamo infatti, suo malgrado, alla trasformazione di Fantozzi in "cazzaro", che millanta un passato da campione („Sono stato azzurro di sci!“), richiama altre figure della commedia italiana, come il "Conte Max" interpretato (guarda caso) da Alberto Sordi. È la rappresentazione tragicomica dell'italiano medio che, pur di sentirsi parte di un mondo che lo esclude, è disposto a inventarsi una vita parallela fatta di competenze immaginarie e successi mai ottenuti.
Il biliardo: gerarchie e servilismo
„La mia è classe, il Suo è culo, caro il mio coglionazzo!“

Altro momento sportivo topico nel primo film della saga fantozziana è la celebre partita di biliardo contro il Duca Conte Catellani (Umberto D´Orsi). Questo esemplare perfetto del „capo“ fantozziano, oltre a essere disumano e crudele, ha anche un hobby (il biliardo appunto) a cui tutti i sottoposti, pardon, i dipendenti devono adeguarsi. Non per avere anche loro un momento di distrazione, ma per essere ancora di più vittime di umiliazioni e soddisfare il bisogno di affermazione sportiva dello stesso Catellani. Infatti, il nuovo direttore, appassionato di biliardo, promuove gli impiegati che perdono contro di lui. Il servilismo aziendale si manifesta così anche attraverso lo sport. E non sarà l´ultima volta.

Fantozzi, desideroso di ottenere una promozione, prende lezioni segrete e, una volta ottenuta la straordinaria occasione della sua vita (perdere a biliardo contro Catellani e ottenere l´agognata svolta professionale) si trova coinvolto in una sfida surreale. La scena rivela le dinamiche di potere che permeano il mondo aziendale: lo sport non è più competizione leale, ma diventa strumento di sottomissione e adulazione.
Tuttavia, è proprio in questa partita che Fantozzi ha uno dei suoi rari momenti di ribellione. In un lampo di orgoglio, colpisce la palla con forza e precisione inusitate; punto dopo punto dimentica ogni atto di servilismo. E batte il temuto direttore. Nonostante la sua esistenza miserabile, schiacciata dal peso della gerarchia sociale e aziendale, Fantozzi ha momenti di riscatto che ne rivelano la profonda umanità. La vittoria a biliardo contro il potente direttore è solo uno di questi.
È un istante fugace di riscatto, un barlume di dignità in un'esistenza fatta di umiliazioni quotidiane. Ma la rivolta dura poco: immediatamente dopo aver vinto, Fantozzi rapisce la madre del Catellani, nella disperata speranza di ottenere „perdono“ in cambio dello scomodo ostaggio.
Calboni: il contraltare di Fantozzi

Proprio l´episodio del biliardo fa emergere la figura che rappresenta il contraltare al Ragioniere c'è il geometra Calboni, il collega "figo", scapolo, elegante, abile nel gioco e nei giochi di potere. A differenza di Fantozzi, sembra sapersi muovere con disinvoltura nel labirinto della mediocrità borghese, imitando con più successo i modelli dell'élite.
Calboni rappresenta l'altra faccia della medaglia: non il perdente goffo e umiliato, ma l'arrivista cinico e privo di scrupoli. È maestro di biliardo (ma, per servilismo, accetta di farsi battere dal Catellani), sciatore provetto, dongiovanni e adulatore di professione. Sfrutta le sue doti e la sua capacità di adattamento per ottenere favori e promozioni, come quella ottenuta grazie al Duca Conte Catellani.
Ma il prezzo che paga è alto: servilismo, come accennato, cinismo, conformismo. La sua vittoria è apparente, perché anche lui, in fondo, non è che un ingranaggio della macchina aziendale, solo più lubrificato e dunque meno rumoroso di Fantozzi.
Villaggio: molto più di un comico
Paolo Villaggio non era solo un attore comico. Era un osservatore straordinario, quasi un antropologo nascosto dietro una risata. Ha raccontato l'italiano medio facendolo ridere del suo vicino, senza fargli capire che rideva anche – e soprattutto – di sé stesso.
Come scrive Lorenzo Ottone su Rivista Contrasti, "Villaggio non è Totò, e nemmeno Sordi, è un antropologo che ha colto il dramma umano ed ha saputo mettere in luce la tragicomica meschinità dell'italiano medio". La sua comicità, intrisa di riferimenti culturali e residui del fascismo, invita il pubblico a ridere delle proprie contraddizioni, spesso senza riconoscere di essere, in fondo, un po' Ugo Fantozzi.
Villaggio ha mescolato elementi di tragedia greca e farsa moderna, dipingendo un'Italia divisa tra ambizione e frustrazione, tra imitazione e ridicolo. E ha usato lo sport, quel feticcio collettivo della modernità, come lente per leggere la realtà sociale, con una lucidità che oggi ci appare ancora più potente.
Una lezione ancora attuale

Oggi, mentre lo sport è diventato sempre più business, status symbol e strumento di autocelebrazione social, il messaggio di Villaggio resta sorprendentemente attuale. Se il campo da tennis, la pista da sci o il tavolo da biliardo diventano strumenti di esclusione e gerarchia, allora forse c'è qualcosa di profondamente sbagliato nella nostra idea di sport.
La critica di Villaggio non è mai amara o intellettualistica. Prende per mano lo spettatore e lo accompagna nel mondo assurdo dell'impiegato medio, ridicolizzandone le manie, i sogni di riscatto e, soprattutto, il rapporto grottesco con lo sport e con la vita.
A cinquant'anni di distanza, le disavventure sportive di Fantozzi continuano a farci ridere, ma anche a farci riflettere su quanto poco sia cambiata la società italiana. Le gerarchie sono forse meno visibili, i simboli di status sono cambiati, ma il desiderio di appartenenza, l'insicurezza e il senso di inadeguatezza restano tratti caratteristici dell'italiano medio.
E magari, nel nostro piccolo, abbiamo ancora qualcosa da imparare da quel povero, maldestro, eterno Ragionier Fantozzi che, nonostante tutto, non smette mai di provarci. Perché in fondo, come ci insegna Villaggio, il vero fallimento non sta nella caduta, ma nel rinunciare a rialzarsi.
L'eredità di Villaggio: uno sguardo antropologico attraverso lo sport
L'operazione culturale di Paolo Villaggio va ben oltre la commedia. Con una sensibilità antropologica unica, ha creato un personaggio senza tempo che incarna i limiti e la comicità tragica della piccola borghesia nell'era del consumismo.

Lo sport, nelle sue mani, diventa una lente d'ingrandimento che evidenzia il divario tra l'ideale dell´inclusione e la realtà delle disuguaglianze sociali. Ogni partita di tennis, ogni discesa sugli sci, ogni incontro di calcio racconta molto più di una semplice attività fisica: racconta la società italiana con le sue contraddizioni, le sue ipocrisie, le sue frustrazioni.
La genialità di Villaggio sta nell'aver trasformato questa analisi sociale in commedia, permettendo al pubblico di ridere delle proprie miserie senza sentirsi giudicato. È una risata catartica che, mentre ci diverte, ci porta a riconoscere e forse a riconsiderare le nostre piccole meschinità quotidiane.
Oggi, in un mondo dove lo sport è diventato ancora più pervasivo e simbolico, l'eredità di Villaggio resta un monito e un invito a riflettere sulle nostre fragilità. Perché, in fondo, c'è un po' di Fantozzi in ognuno di noi, che sia sul campo da tennis all'alba o su una pista da sci troppo ripida per le nostre capacità.
E forse, la prossima volta che ci troveremo in difficoltà in qualche situazione sportiva o sociale, invece di fingere competenze che non abbiamo, potremo sorridere pensando al ragionier Ugo Fantozzi e alle sue disavventure. E in quel sorriso ci sarà un po' più di accettazione e un po' meno di ansia da prestazione. Che, alla fine, è la più grande lezione che Villaggio ci ha lasciato.
Avete capito, coglionazzi!
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