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FOR THE GLORY

Aggiornamento: 15 nov

 Passioni. Noi esseri umani viviamo di cibo, acqua, aria. Ma viviamo anche di passioni.

 

Senza passioni le nostre esistenze sarebbero più povere, più fredde, più noiose. Ognuno vive a modo suo le proprie passioni. Chi ne parla con tutti, al limite della sopportazione (degli altri). Chi le tiene gelosamente, timidamente per sé, al massimo chiuse in un cassetto a prendere polvere. Chi, invece, cerca di farle fruttare.

 

La descrizione migliore di cosa siano le passioni l´ho raccolta da uno straordinario film argentino (di cui parlerò nelle prossime puntate, poi capirete perché), Il segreto dei suoi occhi (El secreto de sus ojos), diretto da Juan José Campanella, che nel 2010 è stato premiato con l´Oscar per il miglior film straniero. Chi ha avuto la fortuna di vederlo, sa già di cosa si tratta: è un giallo con sfondo storico (si svolge in parte nell’Argentina all’inizio della dittatura militare tra anni Settanta e Ottanta) e sfumature romantiche. Trattandosi di Argentina, giocoforza entra in campo (è il caso di dirlo), anche il calcio, la passione principale (assiema al tango, a quanto pare) di questo affascinante e complesso paese sudamericano.

 

La spiegazione che Pablo Sandoval, il saggio collega del protagonista, offre a Benjamin Esposito come chiave per individuare il principale sospettato del terribile delitto su cui si incentra la storia, è proprio legata al tema delle passioni. Ognuno di noi ha una passione. Per passione si ama, si odia. Delle nostre passioni parliamo con tutti. Queste occupano le nostre esistenze. Tutto può cambiare nelle nostre vite. Tutto: tranne le passioni. Quindi la passione per il calcio, che si legge nemmeno tanto tra le righe nelle lettere che i due investigatori hanno letteralmente rubato nella casa del principale sospettato, li può condurre sulle sue tracce. E così sarà, come sanno tutti quelli che conoscono la vicenda trattata nella pellicola.

 




Da quando la rete ha aperto le porte alle comunicazioni globali e alla pubblicazione per tutti, milioni di persone hanno cercato di rendere note al mondo intero (quello almeno on line) le proprie passioni, non tutti poi sono riusciti a continuare con costanza questa resa pubblica.

 

Chi ha aperto un blog sul proprio amore per i criceti, chi ha riempito la rete di fotografie dalle vacanze, chi ha creato un podcast sul folclore maremmano, un canale YouTube sul tiro alla fune. I più continui, i più capaci, i più tenaci, in definitiva i più bravi hanno fatto della pubblicizzazione delle proprie passioni un lavoro, o almeno una seconda fonte di guadagno.

 

Negli ultimi anni ho assistito, più o meno da vicino, alla crescita di questo fenomeno. Ne ho usufruito passivamente, da spettatore e da lettore, ricavando molte informazioni e un arricchimento culturale, ma anche personale, che non mi sarei aspettato: sono sempre stato molto scettico sulle fonti informative cosiddette „alternative“. Sì, ho sempre rispettato la sacralità dei media tradizionali, dei testi ufficiali, di enciclopedie, libri pubblicati da editori autorevoli.

 

Da qualche tempo, però, mi sono reso conto che anche chi non è nel circuito ufficiale mediatico, accademico e culturale, ha il diritto, anzi il dovere, di potere esprimere le proprie competenze, i risultati delle proprie ricerche e il frutto delle proprie passioni. Starà poi a me, lettore, ascoltatore, spettatore, distinguere tra prodotti buoni e prodotti mediocri, se non inaffidabili.

 

Fatta questa premessa, in qualche modo voglio dichiarare al mondo intero, o meglio ai pochi, coraggiosi lettori di questo blog che sta faticosamente vedendo la luce, che anche io ho finalmente rotto gli indugi: voglio condividere con gli altri il mio interesse e il mio punto di vista su quel settore del cinema che al meglio riunisce due delle mie grandi passioni, il cinema appunto e lo sport.

 

Questo è infatti il tema del blog: cinema e sport, film sullo sport, sport al cinema, condivisioni e convivenza di sport nel cinema e così via. Tema ampio, senza dubbio. Quindi tanti film da vedere, materiale da analizzare veramente immenso, così come i temi di discussione sono numerosi.

 

Alla scelta di questo tema non è estranea, come accennato, anche la mia passione per lo sport attivo. Credo di aver superato da tempo la dimensione passiva dell’appassionato di sport: il cosiddetto sportive da poltrona. Sì, seguo eventi sportivi sui media: ma negli ultimi anni credo di aver visto al massimo cinque partite di calcio per intero in tv, provando in generale una discreta noia. Più piacevole la visione di corse ciclistiche, uno dei miei più vecchi cavalli di battaglia. Non frequenti le puntate su altri sport, se non occasionalmente, per pura curiosità o per mostrare questa o quella disciplina a mio figlio, che sta ancora decidendo cosa fare (sportivamente) da grande. Anche le Olimpiadi mi lasciano sempre più indifferente, se non per qualche storia particolare, che mi fa sempre pensare: “Ah, questo sarebbe un bel soggetto da film!”

 

Stranamente, invece, è cresciuto il mio interesse proprio per i film di argomento sportivo o in cui lo sport ha una parte piú o meno significativa all’interno della storia. Forse perché nello sport di finzione alla fin dei conti si sa come andrà a finire? Già, perché, in fondo, l´attrattività dello sport come spettacolo sta soprattutto nell´imponderabilità. Non si sa quale sarà il risultato finale, chi vincerà e chi sarà sconfitto. Insomma: non c´è copione, trama, il finale non lo conosce nessuno, neppure l’autore, ammesso che ce ne sia uno, che non siano i protagonisti sul campo, in piscina o in pista.

 

Sono stanco di essere in tensione in attesa del risultato finale. Sono stanco di soffrire per questa o quella squadra, per questo o quell’atleta. In fondo meglio le storie di finzione, in cui, come accennato, tutto è già scritto. Certo, devo aspettare la scritta “The End”, rimane la suspense, ma se il film lo rivedo, tutto sommato il finale non cambia. Se faccio scorrere il dvd in avanti, ecco che la conclusione è lì. So anche che, in definitiva, si tratta di una storia inventata, come nel caso dell´epopea di Rocky, o di una delle più entusiasmanti pellicole sul calcio, Fuga per la vittoria (Escape to Victory). O ancora Ogni maledetta Domenica (Any given Sunday), omaggio di Oliver Stone al mondo del football americano.

 

Oppure che, nel caso della trasposizione di storie vere, sono anche consapevole di come in realtà sia andata a finire. Che, ad esempio, Harold Abrahms o Eric Liddell vincono la loro medaglia d´oro alle Olimpiadi di Parigi nel 1924, che la Germania batte la grande Ungheria nella finale di Berna del 1954, che Mohamed Ali sconfigge George Foreman sul ring di Kinshasa, che Tonya Harding viene squalificata perché ritenuta responsabile dell’agguato alla sua avversaria, che Lance Armstrong trionfa in sette Tour de France consecutivi, prima che venga a galla lo scandalo del suo doping sistematico.

 

Tutti questi finali sono già scritti, prima ancora che dagli sceneggiatori, dalla realtà, dagli eventi, dai protagonisti in carne e ossa. Il bello del cinema è, tuttavia, la capacità di raccontare questa realtà in altro modo, di renderla più o meno accattivante, di farcela scoprire (o riscoprire) a distanza di tempo, magari tirandola fuori dalla soffitta dei ricordi impolverati.

 

Un altro motivo per cui ho deciso di rompere gli indugi e entrare con questo argomento nel grande universo dei blog  è proprio il centenario, appena evocato, dei giochi olimpici del 1924. Sempre Parigi ha ospitato tre mesi fa le Olimpiadi un secolo dopo, quelle olimpiadi che hanno trovato la loro glorificazione sul grande schermo grazie a Chariots of fire (in italiano Momenti di gloria), il film di Hugh Hudson, che ha fatto conoscere al grande pubblico le vicende sportive e umane di due atleti che all’epoca dell’uscita della pellicola (1981) erano noti solo agli appassionati dell’atletica leggera e agli storici dello sport. Proprio questo film è stato per me una sorta di illuminazione.

 

Inizialmente ero scettico di fronte a Momenti di gloria, quando il film uscì sugli schermi cinematografici italiani. Alla premiazione per gli Oscar, in cui ottenne la statuetta come miglior film, aveva tolto il trionfo a quello che ritenevo il film più meritevole, Reds, di e con Warren Beatty. Solo tempo dopo, quando la pellicola passò in tv, riuscii a innamorarmi letteralmente della storia di Abrahms e Liddell, delle entusiasmanti scene di corsa, dell´incantatrice musica di Vangelis, destinata a diventare la colonna sonora standard di tanti eventi sportivi e, nel mio piccolo, di tanti miei allenamenti.

 

Non è un caso che il titolo di questo primo articolo per il blog, For the glory, sia legato al film di Hugh Hudson. Infatti si tratta del titolo originale della biografia di Eric Liddell, pubblicata da Duncan Hamilton nel 2016, e di cui parlerò in uno dei prossimi appuntamenti del blog. All´epoca, a parte poche eccezioni, gli atleti infatti correvano soprattutto „for the glory“, per la gloria: Liddell correva anche per un obiettivo più grande, più impercettibile in una società già parzialmente secolarizzata come la Gran Bretagna degli anni Venti. Eric Liddell (1902-1945), che di professione era missionario anglicano, infatti correva per Dio, per onorare e glorificare Dio, per diffondere negli stadi di tutto il mondo la Parola di Dio.

For the glory, in fondo, potrebbe essere considerato anche il principio che isoira la stragrande maggioranza dei film di argomento sportivo, quelli in cui personaggi e vicende sono frutto della creatività di sceneggiatori e registi. Soldi, ricchezza, auto sportive, donne, riflettori dei media: sono tutti obiettivi secondari.  Da Rocky Balboa a Adonis Creed, da Roy Hobbs, protagonista di Il migliore, (The Natural, 1984) di Barry Levinson, a Willie Beamen, (il giocatore di football americano sostenuto dal suo allenatore Tony d´Amato-Al Pacino in Ogni maledetta domenica (Any given Sunday, 1999) di Oliver Stone, tutti (o quasi) si dannano l’anima davanti alla cinepresa per raggiungere la Gloria. Tutti, chi più chi meno, la raggiungono, perché il cinema ha tra i tanti doni quello di garantire popolarità e gloria immortale. Lo stesso vale per lo sport, per molte discipline sportive, non per tutte in realtà.

 

Per arrivare a ciò, però, atleti e atlete hanno bisogno di chi costruisca intorno a loro mito. Questo già dai tempi dei Giochi olimpici dell’antica Grecia, immortalati non da cronisti sportivi, né tantomeno da registi, ma dai versi del poeta Pindaro. Strano destino il suo: i nomi dei campioni da lui celebrati sono praticamente caduti nell´anonimato, mentre il suo è rimasto iscritto nella storia della letteratura mondiale. Oggi avviene generalmente il contrario: questo è senz’altro un segno dei tempi, della società dello spettacolo dell’ultimo secolo, che ha fatto di tanti atleti e tante atlete i nuovi eroi e le nuove eroine. Così come eroi e eroine sono diventati gli sportivi di finzione, quelli che sceneggiatori e registi hanno creato per l’occasione. È il caso del citato Rocky Balboa, ad esempio, il pugile più famoso di tutti tempi, anche se non è mai esistito se non sul grande schermo.

 

Con questo blog (e con il podcast e il canale You Tube che entro breve aprirò) intendo quindi portarvi nel mondo dello sport al cinema. A modo mio, con il mio modo di vedere i film e di conoscere (anche in primissima persona) lo sport.

 

Per tutti ci sarà anche occasione di commentare i miei articoli, integrarli, criticarli. Insomma: uno spazio aperto per quelli che, come me, hanno la passione per il cinema e lo sport.

 

Perché, senza passioni, non si può vivere…

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