LE TANTE VITE DI BIG GEORGE: OMAGGIO A FOREMAN
- maximminelli
- 23 mar
- Tempo di lettura: 7 min

Forse dovrei tenere in archivio necrologi già pronti, come si fa nelle redazioni dei giornali. Ma io sono solo all´inizio della mia attività editoriale di content creator, per cui anche questa volta mi sono trovato impreparato, come già tre settimane fa per la morte di Bruno Pizzul. E chissà quanti ancora buchi dovrò prendere, purtroppo. L´attualità è sempre più veloce dei pensieri e della vita delle persone normali. Non finirò mai di impararlo.
George Foreman: cuore di leone, sul ring e nella vita

Venerdì 21 marzo il mondo ha detto addio a George Foreman, un colosso della boxe che non è stato solo un pugile, ma un simbolo di resilienza, fede e rinascita. Big George se n’è andato a 76 anni, lasciando dietro di sé una storia che sembrava proprio scritta per il grande schermo. E, a dire il vero, il cinema non ha perso tempo a raccontarla: poco più di un anno fa, George Foreman - Cuore di leone (“Big George Foreman: The Miraculous Story of the Once and Future Heavyweight Champion of the World” è il titolo originale completo, degno di un film di Lina Wertmüller) ha portato nelle sale la parabola di un uomo che ha vissuto mille vite in una sola. Con la sua scomparsa, quel film non è più solo uno dei tanti biopic sui grandi dello sport, che sono apparsi negli ultimi anni: è un testamento, un modo per ricordare un gigante che ha fatto della cadute e del risalite il suo marchio di fabbrica.
Un ragazzo del Texas con i pugni e un sogno
Immaginate un ragazzino cresciuto nella povertà del Texas, tra le strade polverose di Houston, dove la fame non era solo una metafora. George Foreman non è nato con il cucchiaio d’argento in bocca, ma con una rabbia che ribolliva dentro. Era il tipo di rabbia che poteva portarti a finire nei guai – e infatti, da giovane, George non era proprio un santo – o a trasformarti in qualcosa di grande. Per lui, è stata la seconda. La boxe è diventata la sua via d’uscita, il modo per incanalare quel fuoco che gli bruciava dentro.
E che fuoco! Nel 1968, a soli 19 anni, si presenta alle Olimpiadi di Città del Messico e torna a casa con l’oro al collo. Non è solo una medaglia: è il biglietto per il mondo dei professionisti, dove i giganti come Muhammad Ali e Joe Frazier dettano legge. Foreman non si tira indietro. Nel 1973, a Kingston, Giamaica, affronta Frazier, il campione in carica dei pesi massimi. È un massacro: George lo manda al tappeto sei volte in due round. “Mi fece diventare uno yo-yo”, dirà anni dopo Foreman con quel suo sorriso sornione. Il titolo mondiale è suo, e il mondo scopre un pugile che non colpisce: distrugge.
Il ruggito nella giungla
Ma ogni re ha il suo momento di crisi, e per Foreman arriva nel 1974, nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), con il leggendario “Rumble in the Jungle”. Anche qui il cinema aveva già lasciato il segno con un documentario indimenticabile When We Were Kings (1996): come non ricordarsi dell´urlo della folla a favore di Ali, “Ali, boma ye!”, (Ali, uccidilo!). Per passare attraverso il biopic su Cassius Clay, Ali (2001) di Michael Mann, con Will Smith, e che non si mostra certo generoso nei confronti di Foreman e il suo atteggiamento verso l´avversario.

A Kinshasa Muhammad Ali, l’imbattibile, il poeta del ring, lo aspetta. George è al massimo della forma, un carro armato umano che sembra destinato a travolgere tutto. Commette anche diversi errori di marketing, per così dire, su cui non è la sede soffermarsi. Tra i due sfidanti, inoltre, ci sono sette anni di differenza, Ali ha visto anche la sua carriera interrompersi a causa del suo rifiuto di andare a combattere in Vietnam. Insomma, sulla carta Foreman è il favorito.
Eppure, quella notte, succede l’impensabile. Ali lo lascia sfogare, lo stanca con la sua “rope-a-dope” – quella tattica geniale di appoggiarsi alle corde e assorbire i colpi – e poi, all’ottavo round, lo mette KO. È la prima vera sconfitta di Foreman, e non è solo fisica. “Credevo di essere invincibile”, dirà anni dopo. Quel colpo lo spezza, dentro e fuori.
Il film di George Tillman Jr. ricostruisce quella notte con una potenza che ti inchioda alla poltrona. Non è solo la boxe: è il crollo di un uomo che si vedeva come un dio del ring. Khris Davis, l’attore che dà vita a Foreman, tira fuori un’interpretazione convincente: lo vedi sudare, colpire, crollare. E capisci che quel KO non è stata solo una sconfitta, ma un punto di svolta. Dopo quella notte, George non è stato più lo stesso. La rabbia che lo aveva portato in cima comincia a pesargli, e il ring diventa un ricordo.
La rinascita: dal guantone alla croce

E qui arriva una delle parti più incredibili della storia di Foreman, quella che il film racconta con una delicatezza sorprendente e un´ammirevole dovizia di particolare. Nel 1977, dopo un incontro in Porto Rico, George vive un’esperienza che cambia tutto. Sconfitto, esausto, nello spogliatoio ha una specie di visione, un momento di pre-morte che lui stesso descriverà come un dialogo con Dio. “Trasformai la mia personalità”, aveva raccontato in un’intervista. Basta boxe, basta violenza. Foreman appende i guantoni al chiodo e si dedica alla fede. Diventa predicatore, fonda una chiesa, apre un centro giovanile per aiutare i ragazzi come lui, quelli che vengono dalla strada.
Immaginate la scena: un omone di quasi due metri, con mani che potrebbero spaccare un muro, che invece di tirare pugni parla di pace e redenzione. È una svolta che spiazza tutti, ma non lui. Nel film, questa fase è resa con un tocco leggero, senza scadere nel melenso. Tillman Jr. ci mostra un Foreman che trova nella spiritualità una forza nuova, diversa da quella fisica, ma altrettanto potente. E Khris Davis? Qui dà il meglio: il suo George è un uomo in pace con se stesso, ma con quel lampo negli occhi che dice che il fuoco non si è spento del tutto.
Il ritorno impossibile
Passano gli anni, e Foreman sembra felice lontano dal ring. Ma la vita, si sa, ha sempre un gancio pronto a sorprenderti. Il centro giovanile che ha fondato rischia di chiudere per mancanza di fondi, e George, a 38 anni, prende una decisione che molti giudicano folle: torna a combattere. I media lo deridono, lo chiamano “il nonno del ring”. Lui non si scompone. Solo Evander Holyfield porrà termine (temporaneamente, come si vedrà) a questa sua seconda vita da pugile professionista: siamo nel 1991.
Non è finita

. George Foreman non si dà per vinto. Si allena, si rimette in forma, e nel 1994, a 45 anni, compie un miracolo: contro Michael Moorer riconquista il titolo mondiale dei pesi massimi. È il campione più anziano della storia della boxe, e il mondo resta a bocca aperta.
Il film dedica a questo ritorno alcune delle scene più emozionanti. Vedi un Foreman maturo, con qualche chilo in più, che si allena mentre tutti esprimono le proprie perplessità. Si era in un´epoca, in cui, e non solo nel pugilato, la longevità agonistica era più breve rispetto ad oggi. La scelta di Big George si svelerà indovinata, seppur arrischiata. Infatti , sul ring, lo vedi tirare fuori quel pugno che sembra venire dal passato, un colpo che manda Moorer al tappeto e il pubblico in delirio. È un momento di pura adrenalina, ma anche di poesia: un uomo che dimostra che l’età è solo un numero, e che la volontà può tutto.
Oltre il ring: il re del grill
Ma George Foreman non è solo boxe e fede. C’è un altro capitolo della sua vita che il film intreccia con maestria: la sua carriera da imprenditore. Negli anni ‘90, Big George diventa il volto di un semplice elettrodomestico, il George Foreman Grill, una griglia elettrica che finisce nelle case di milioni di persone. È un successo clamoroso: si dice che abbia guadagnato più soldi con quel grill che con tutti i suoi incontri messi insieme. Nel film, questa parte non è solo un aneddoto: è la prova della sua capacità di trasformare ogni occasione in oro, anche fuori dal ring.
Un film che divide, ma colpisce
George Foreman - Cuore di leone non è un film perfetto. Alcuni critici lo hanno definito un compitino ben fatto, ma senza quel guizzo che lo renderebbe memorabile. Altri lo hanno trovato troppo scolastico, con una narrazione che segue il manuale del biopic senza osare. Eppure, c’è qualcosa in questa pellicola che affascina gli spettatori. Sarà la storia vera, sarà la performance di Davis – che per il ruolo ha messo su chili e si è trasformato fisicamente senza trucchi – o sarà la regia di Tillman Jr., che alterna sequenze di combattimenti brutali a momenti di introspezione toccanti.
Anche il resto del cast aiuta: Forest Whitaker, nei panni del mentore Doc Broadus, è una roccia, mentre Sullivan Jones dà a Muhammad Ali quel carisma che fa venir voglia di rivedere i vecchi filmati dei suoi incontri, soprattutto di quella leggendaria notte di Kinshasa. La colonna sonora, poi, è un viaggio negli anni ‘60 e ‘70, con quel soul che entra in testa e ti riporta all’epoca d’oro della boxe.
Un’eredità che vive

Con la morte di Foreman, il film diventa qualcosa di più. Non è solo un racconto: è un modo per tenere viva la memoria di un uomo che ha incarnato lo spirito del combattente, dentro e fuori dal ring. Per chi non lo ha visto combattere dal vivo, è una finestra su un’epoca in cui i pugili erano leggende, oltre che esempi e modelli per tantissimi giovani. Per chi c’era, è un tuffo nel passato, un modo per rivivere emozioni che hanno segnato la storia dello sport.
George Foreman non era perfetto. Aveva i suoi demoni, le sue cadute. Ma ogni volta si è rialzato, con la forza di un pugno e la dolcezza di un sorriso. “Cuore di leone” non sarà un capolavoro, ma è un tributo onesto a un uomo che ci ha insegnato che non è mai troppo tardi per tornare a combattere. E oggi, mentre lo salutiamo, possiamo solo dirgli grazie: per i pugni, per come ha vissuto la sua fede, per quel grill grazie al quale milioni di persone hanno mangiato hamburger forse sognando di essere un po’ come lui.
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